L'Empatia in Psicoterapia
Il
vocabolo empatia compare nella lingua inglese da nel 1909, tradotto dal tedesco
Einfűhlung (“sentire dentro”). In quegli anni l’empatia era definita come il
processo di umanizzare gli oggetti, o di leggere o sentire noi stessi dentro di
loro, ad esempio quando ci troviamo di fronte ad un’opera d’arte. Progressivamente
questo uso esclusivamente legato all’entrare in contatto con oggetti, viene
esteso al rapporto con le altre persone, collocando l’empatia a buon diritto
all’interno della psicologia.
Durante il romanticismo gli storici della medicina rintracciano i primi
germogli di un’idea tutta nuova del rapporto medico-paziente; comincia a
comparire la soggettività del medico, non più visto unicamente come depositario
del sapere in grado di curare, ma come portatore di un interesse personale nei
confronti del paziente. Naturalmente le implicazioni che seguono questa nuova
visione sono molteplici, portando il contatto tra medico e paziente ad un
livello più umano.
L’estensione dall’estetica, ambito in cui si hanno le prime utilizzazioni
dell’empatia, si produce anche grazie agli scritti di Dilthey. Per questo
autore, che tra i primi si è assunto il compito di esaminare il processo,
comprendere significa riuscire, attraverso la memoria, a “ri-esperire”
sentimenti già provati in passato, che possono essere accostati a quelli del
soggetto. È necessaria pertanto una vicinanza emotiva con la persona con cui si
empatizza, vicinanza che fornisce la possibilità di condividerne le
esperienze.
La prima apparizione del concetto nell’opera di Freud, è rintracciabile ne “Il
motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio” del 1905, dove appare ben
otto volte. Egli usa il termine per descrivere il processo psichico del comico,
e crede sia possibile porsi nella posizione di un’altra persona sia
consciamente che inconsciamente.
Per Freud è implicito come essa sia una conditio sine qua non dell’analisi,
capace di favorire l’emergere del transfert positivo, necessario al paziente
per beneficiare dell’interpretazione dei suoi sintomi. Porsi “nei panni” del
paziente, può essere considerato un prerequisito dell’interpretazione (Pigman
1995).
Ferenczi, forse lo psicoanalista più sottovalutato della storia della
psicoanalisi, aveva espresso un concetto assimilabile all’empatia quando aveva
sostenuto che era da lasciare “al tatto psicologico del terapeuta la decisione
riguardo il momento adatto di comunicare al paziente determinate cose”
(Ferenczi, 1928). Più avanti nel brano, egli si chiedeva cosa fosse il “tatto”
a cui si era riferito più sopra, arrivando a dire che altro non era se non la
capacità di empatia.
Chiaramente l'empatia ha bisogno di una estesa conoscenza del paziente da parte
dello psicoterapeuta, dato che come scriveva Freud in Totem e Tabù (1912-13),
si corre il rischio di "interpretare le azioni e i sentimenti seguendo la
nostra costellazione mentale". Trovandosi dinanzi a persone che hanno un
diverso modo di funzionamento mentale, si proiettano solo i propri sentimenti
sull’altra persona, credendo invece di stare empatizzando.
Comincia oggi ad essere radicata nella mente degli psicologi l’idea secondo la
quale le teorie pulsionali che hanno visto la luce all’inizio della
psicoanalisi, non siano più assumibili come abbastanza ampie da fornire
spiegazioni soddisfacenti per i fenomeni osservabili nella pratica quotidiana.
La nuova importanza attribuita alle relazioni, e la conseguente minor rilevanza
assunta dalla sfera intrapsichica, donano piena luce all’empatia, che si viene
a prefigurare come uno strumento preferenziale per l’indagine relazionale. Ne
risulterà un vantaggio consistente per la psicoterapia, perché il clinico sarà
“sintonizzato” sulle necessità portate dallo stesso paziente nella stanza di
terapia.
Daniele Lami